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La Macchina Per Scrivere
Andrea Lepri


Una macchina per scrivere maledetta.

Un uomo seduto sulla ringhiera di un balcone.

Il protagonista del suo romanzo.

Due vite che intrecciano esperienze simili, due percorsi in bilico tra l’Amore e la Morte.



Franco se ne sta comodamente seduto sulla ringhiera del terrazzo di casa sua, al terzo piano del palazzo dove abita. Come se niente fosse, legge le pagine del romanzo che ha appena finito di scrivere per poi lasciarle cadere giù, tra la folla di curiosi che si è radunata a guardarlo. Credendo che sia in procinto di saltare di sotto qualcuno ha chiamato i soccorsi, adesso un Vigile del Fuoco sta salendo con la scala meccanica verso di lui mentre in lontananza si odono le sirene della polizia e dell’autoambulanza. Incurante di tutto questo Franco legge, incredulo. Non credeva di essere capace di scrivere un romanzo, e gli sembra impossibile di essere riuscito a terminarlo prima che arrivi la punizione. Infatti scriverlo gli è costato molto, per riuscirci ha seguito un percorso che lo ha portato a commettere gesti impronunciabili. Sua moglie sta correndo da lui per tentare di salvarlo, infatti parlandoci per telefono ha intuito che Franco ha trovato in cantina la sua macchina per scrivere, quella macchina che si dice sia maledetta. Intanto lui legge e ricorda...

Franco è convinto che l’amore sia la forza che fa girare il mondo. A causa di un incidente sul lavoro è costretto a trascorrere le vacanze estive da solo, a casa, in convalescenza. Quando gli consegneranno i risultati delle analisi potrà partire per raggiungere la famiglia in ferie, moglie e due bambini. Dopo tanto tempo si trova a dover passare un lungo periodo in completa solitudine, ma non ci è più abituato e si annoia molto. Quando rovistando in cantina trova una vecchia macchina per scrivere, decide che per trascorrere il tempo scriverà un romanzo. È la storia del signor Carpetti, un uomo solo che avendo perso l’amore per la vita sta morendo di un male inesistente. Quando il dottore gli rivela che ha pochi mesi di vita intraprende un cammino che lo porterà a cambiare profondamente. Durante questo percorso conoscerà una persona che lo trascinerà con sé in un’avventura incredibile e che lo riporterà a credere nei valori dell’amore. Questa persona è Walter, un medico missionario vittima di un intrigo internazionale che ha per oggetto la vendita di farmaci scaduti ai paesi del terzo mondo. È lui che insegnerà a Carpetti l’amore per la vita, per le persone e per le cose.

Ma la macchina che Franco sta usando per scrivere questa storia ha qualcosa di strano: si dice che sia appartenuta ad uno scrittore pazzo, un uomo che dopo aver scritto un unico capolavoro si è suicidato, lasciando una lettera accusatoria nei confronti della macchina stessa ove la definisce maledetta. Mentre Carpetti, passando attraverso esperienze di vario genere, compie il proprio cammino verso la salvezza, Franco, per poterlo raccontare al meglio, si immedesima sempre di più in Carpetti. Intanto stabilisce un rapporto molto particolare con la macchina per scrivere, non riconosce come sue alcune pagine del romanzo e pensa che le abbia scritte lei. Pur temendo che questo lo porterà a impazzire definitivamente sente deve scrivere a tutti i costi, questo perché quando si allontana dalla macchina è colto da sensazioni strane, angoscia, dolore fisico. Alcuni malori ricorrenti gli fanno credere di essere gravemente ammalato, di avere una malattia che progredisce di giorno in giorno e che presto lo porterà alla morte. Di conseguenza nella propria mente compie le stesse esperienze di Carpetti in un viaggio a ritroso, arrivando a scoprire la parte oscura di sé ed a mettere in discussione tutto ciò in cui crede. Le due storie si svolgono in parallelo e si sovrappongono, intanto i due personaggi chiave procedono su percorsi inversi. Ad un certo punto però le due storie si intrecciano: entrambi compiono un atto di violenza (o almeno, Franco crede che sia così) sulla stessa ragazza, Chica, partorita dalla fantasia di Franco. Quello stesso gesto darà la svolta definitiva alla storia di Carpetti e alla vita di Franco, ma con effetti opposti. Carpetti troverà finalmente uno scopo di vita che lo guarirà dal suo male








INDICE DEI CAPITOLI



CAPITOLO I (#ulink_230836d0-19a3-542c-ba0a-09fab7862a6f)

FRANCO SUL TERRAZZO



CAPITOLO II

L’INCIDENTE AL LAVORO



CAPITOLO III (#ulink_a24747c6-bd79-5a51-acdc-f47c88493d59)

LA PRIMA PAGINA



CAPITOLO IV (#ulink_54f94f54-4f39-5cce-91bd-14a4911ca0c2)

LE ANALISI DI FRANCO



CAPITOLO V (#ulink_1469e69d-6ee8-5870-8ba9-2d955751fd5d)

UN BRUTTO RISVEGLIO



CAPITOLO VI (#litres_trial_promo)

IL MICIO



CAPITOLO VII (#litres_trial_promo)

LA TELEFONATA A SISSI



CAPITOLO VIII (#litres_trial_promo)

LA RICERCA DELLA GUIDA SPIRITUALE



CAPITOLO IX (#litres_trial_promo)

FRANCO E CHICA



CAPITOLO X (#litres_trial_promo)

“NO, NON FARLO!”



CAPITOLO XI (#litres_trial_promo)

LA MORTE DEL MICIO



CAPITOLO XII (#litres_trial_promo)

I DUBBI DI FRANCO



CAPITOLO XIII (#litres_trial_promo)

IL PRIMO TASSELLO



CAPITOLO XIV (#litres_trial_promo)

IL SECONDO TASSELLO



CAPITOLO XV (#litres_trial_promo)

IL TERZO TASSELLO



CAPITOLO I



FRANCO SUL TERRAZZO



Franco stacca gli occhi dal foglio e alza distrattamente la testa, perplesso. Tende il braccio e allontana ancora di un poco la pagina che ha appena letto, per osservare meglio quel groviglio di segni d’inchiostro. È come se stesse cercando una visione tra tutte quelle virgole e punti, maiuscole e minuscole, caporali e virgolette. E poi parole, un fiume di parole. Leggere gli è sempre piaciuto, ma è sempre stato convinto che scrivere sia tutta un’altra cosa. Prende una pagina a caso e ricomincia a leggere.



CAPITOLO XXII (LA STORIA DI WALTER)



Malgrado il caldo umido e soffocante, Walter si avvicinò ancora un po’ al falò per tenere a debita distanza le zanzare, grandi come aeroplani. Per sopravvivere in quel posto dimenticato da Dio aveva dovuto imparare a convivere con animali ben più terrificanti e letali, i piranha come le sanguisughe e le Vedove Nere come i serpenti. Eppure continuava a nutrire un odio profondo per le zanzare, ed era certo che sarebbe stato così fino alla fine dei suoi giorni. Che strano, dopo tanto tempo trascorso qui, nel cuore della foresta tropicale, sono riuscito ad abituarmi a tutto meno che a questi inutili insetti. Madre Natura ha stabilito un ruolo e una funzione ben precisa per tutti gli altri esseri viventi, persino per i più ripugnanti e i più pericolosi. Per le zanzare, invece no! Loro si limitano a ronzarti nelle orecchie per toglierti la pace nelle ore del riposo e a succhiarti il sangue, magari all’occorrenza te lo infettano anche. Chissà che Dio non le abbia create tanto per fare un dispetto agli uomini, considerò, infatti queste avevano rappresentato l’unica realtà costantemente immutata durante la sua lunga permanenza in quel posto, gli avevano fatto sgradevolmente compagnia a ogni ora del giorno e della notte come la tortura cinese della goccia d’acqua. Chissà se mi mancheranno si chiese infine, poi tornò a riflettere sconsolato sull’assurdità della situazione in cui si trovava. Essere costretto a partire di soppiatto come un ladro, senza neanche aver capito bene il perché, proprio non gli andava giù! Sospirò sconfortato e si lasciò cullare dal cupo e familiare brontolio del fiume, che aveva da tempo fatto suo come l’odore intenso dell’humus. Dover abbandonare tutto in quel modo gli bruciava dentro, provava il dolore sordo di chi si sente sconfitto senza neanche aver lottato, senza nemmeno aver avuto modo di capire chi era l’avversario da combattere.



Il falò stava ormai per spegnersi, ma Walter decise di attendere ancora un po’, cullandosi nella speranza che Sarah si facesse viva. Avrebbe tanto voluto che lei gli dicesse “vengo con te” o anche soltanto “mi dispiace”. Ma Sarah non venne. Lui ripensò ai suoi lunghi capelli neri e lisci, lucidi, ai suoi occhi scuri e profondi e al profumo della sua pelle, che gli ricordava quello del miele. Soltanto poche ore prima, forse perché avevano intuito che le cose stavano precipitando, avevano fatto l’amore per la prima volta. Stavano passeggiando lungo il fiume, nei pressi della piccola cascata, quando d’un tratto si erano messi a litigare furiosamente. Dopo alcuni istanti però si erano bloccati d’improvviso, così come avevano cominciato, per fissarsi astiosamente. Coi nervi logorati dalla tensione dei giorni passati si erano avvicinati lentamente l’uno all’altra, sfidandosi con lo sguardo, pronti a colpirsi senza pietà e a farsi del male con ogni mezzo possibile. Ma invece qualcosa di incomprensibile era scattato in loro, che si erano lasciati travolgere dall’istinto. Nessuno dei due l’aveva mai fatto in modo così selvaggio, si erano scambiati morsi e graffi ansimando, gridando e aggrappandosi alle pietre scivolose del fiume. Walter si era sentito come se ogni sua più piccola parte esplodesse in lei, con lei. Dopo erano rimasti a lungo avvinghiati sulla riva fangosa, in silenzio, con le unghie di lei ancora piantate nella schiena di lui.



Per la prima volta da quando si erano incontrati, Walter l’aveva sentita veramente sua fino in fondo, ma quando era tornato al villaggio aveva trovato quei fogli sulla scrivania del suo ambulatorio. Era un invito ufficiale a comparire davanti al Tribunale della Capitale, per fare chiarezza sulla morte improvvisa e misteriosa di molti abitanti del villaggio dove prestava servizio da molti anni. Dopodiché, c’era scritto sui fogli, l’avrebbero trasferito in una non meglio precisata struttura ospedaliera situata in Europa. Ma per lui quella era soltanto carta straccia, sapeva di non potersi fidare della parola dei burocrati. Non era stupido, aveva capito subito di essere stato scelto come capro espiatorio e sapeva che in gioco c’era la sua stessa vita. I rappresentanti della polizia locale, grassi e sudaticci, sarebbero venuti a prelevarlo all’alba con la loro Jeep e i loro modi strafottenti. L’avrebbero gentilmente invitato a seguirli per poi buttarlo in una cella dove l’avrebbero lasciato marcire per il resto dei suoi giorni, per far sì che non trapelasse all’esterno notizia del marciume in cui era rimasto invischiato.

Walter sapeva che una copia di quei fogli era stata sicuramente recapitata anche a Sarah, così aveva capito che, appena un attimo dopo averla trovata, avrebbe perso per sempre quella ragazza meravigliosa. Sapeva che lei non sarebbe venuta perché non c’era niente da aggiungere, rivedersi sarebbe servito soltanto a rendere tutto molto più difficile. Si accorse che gli mancava già.

Guardò ancora una volta i documenti che stringeva in mano, senza rendersene conto li aveva stropicciati a causa della rabbia. Li infilò nella sua borsa di cuoio e sospirò nuovamente, poi si alzò e si avviò con passo mesto verso il moletto. Si fermò solo per un attimo, per dare un ultimo sguardo dolente verso il piccolo edificio a forma di “L”. Quell’ammasso disordinato di mattoni di fango appena sbozzati faceva da scuola, ospedale, mensa, magazzino e sala riunioni. Così come lui nel tempo aveva fatto da maestro e cuoco, dottore e magazziniere, almeno fino all’arrivo di Sarah. Quella palazzina era soltanto uno dei molti risultati visibili dell’impegno col quale aveva combattuto giorno dopo giorno, a dispetto degli scontri politici ed economici tra le nazioni, per riuscire dare qualcosa a quella povera gente. Giunto al luogo dell’appuntamento fece scorrere lo sguardo sui volti scuri e tesi, schierati a semicerchio attorno a lui, soffermandosi per un attimo su ogni singola coppia di occhi luccicanti che lo fissava nella semioscurità della sera. Oltre la fila di teste, in lontananza, scorse la figura di Sarah dietro la tenda di una finestra. Per un istante fu tentato di tornare sui suoi passi per abbracciarla un’ultima volta, ma sapendo che sarebbe stato troppo doloroso rinunciò.



Walter scrutò la radura poco distante che ospitava il piccolo cimitero, illuminato dall’incerta luce lunare. Le croci bianche, che nelle ultime settimane si erano moltiplicate, spiccavano nel buio. Walter scosse la testa e riprese il cammino lungo il breve sentiero che lo separava dal fiume, seguito dagli altri.

Camminava lentamente, accompagnato dai flebili rumori notturni, con il machete in mano e i pantaloni color Kaki che frusciavano contro l’erba troppo rigogliosa. Si fermò sulla riva paludosa, davanti al piccolo pontile al quale erano attraccate le piroghe. Gli altri continuavano a fissarlo in silenzio, timidamente rispettosi, lui sperò ancora una volta che si trattasse soltanto di un brutto sogno. Alla luce della torcia si notavano le precoci spruzzate di grigio sulle sue tempie, accompagnate da qualche piccola ruga attorno agli occhi e agli angoli della bocca. Sentì un improvviso rumore di passi in corsa e per un attimo sperò che si trattasse di lei, ma dal folto della vegetazione sbucò invece fuori un piccolo aborigeno. Poteva avere al massimo otto anni, aveva il viso dipinto coi colori della sua tribù e si atteggiava come un guerriero. Stringeva in mano un arco pronto a scoccare verso di lui, gli altri misero rapidamente mano alle proprie cerbottane e le puntarono contro il bambino. Pochi secondi divennero un’eternità. Walter fece cenno ai propri accompagnatori di abbassare le armi, poi socchiuse gli occhi e rivide il padre del bambino morirgli tra le braccia.

«Mi spiace» riuscì appena a mormorare Walter nella sua lingua, aveva la gola arsa e sapeva che non era a causa della paura. Il piccolo guerriero era scosso da un tremito, ma i suoi occhi sembravano non tradire alcuna emozione.

В«Hai ucciso mio padreВ» accusГІ Walter con la sua stridula voce da bambino, lui non rispose.

«Dì qualcosa» insisté l’ometto, ma l’altro continuò a guardarlo fisso senza aggiungere altro. Lasciò cadere il machete, si sfilò la tracolla della borsa e l’adagiò a terra. Poi rimase in attesa, mentre una goccia di sudore freddo stillava dalla sua tempia. Il bambino lanciò un ruggito rabbioso e nello scoccare la freccia spostò l’arco di pochi gradi verso destra, il dardo avvelenato sibilò a pochi millimetri dalla testa di Walter e andò a perdersi nell’oscurità. Poi il piccolo guerriero lasciò cadere l’arco e corse ad abbracciarlo, piangendo.

«Non andare» gli sussurrò all’orecchio, e lui si sentì morire.

В«Non andare Dottore, come faremo senza di te? Chi si prenderГ  cura di noi?В» gli fece eco Sam.



Walter rispose con un lungo sguardo silenzioso e triste, stringendo i pugni per la rabbia. Raccolse le sue cose, si cacciò in testa il cappello di paglia e si sistemò alla meglio sulla canoa. Sam prese posto di fronte a lui, Walter gli fece un cenno con la testa e i colpi di pagaia presero a risuonare nella notte, secchi e regolari, accompagnati da un lamentoso canto d’addio. Ogni tuffo del remo nell’acqua era una sferzata al suo cuore, stava abbandonando contro la sua volontà tutto quello a cui aveva dedicato gran parte della propria vita, senza risparmiarsi. Si domandò che cosa avrebbe fatto dopo, ma subito scoprì che non gliene importava niente. Era come se la sua vita fosse finita lì, affondata nel fiume Congo, nel cuore della foresta tropicale.



CAPITOLO XXIII (WALTER E SARA)



Guardando scomparire Walter nel fitto della foresta, Sarah si rese conto di non aver mai provato un simile stato d’animo. L’unica cosa di cui era certa era che si sentiva un verme, per non aver avuto nemmeno il coraggio di andare a salutarlo. Guardò ancora un volta i fogli sparsi a terra, la copia degli stessi che aveva ricevuto lui. “Per conoscenza” vi aveva scritto a grandi lettere, in bella calligrafia, qualche impiegato amante della burocrazia e del proprio lavoro. Si protese in avanti per raccoglierli ma ci ripensò, diede un’alzata di spalle e andò a sedersi sul divano di bambù intrecciato, cercando un improbabile sollievo nel getto d’aria artificiale del ventilatore. Ma questo continuava a muovergli intorno l’odore di lui che si sentiva ancora addosso, esasperando la sua lotta interiore. Ripensò a com’era stata bene nelle ultime settimane e a come la situazione era inaspettatamente precipitata, travolgendoli senza lasciar loro una possibilità di scegliere. Le cose avevano cominciato ad andar male proprio nel momento in cui loro due avevano iniziato a conoscersi meglio e a capirsi, quando si erano sentiti finalmente pronti a lasciarsi andare. Fare l’amore con lui era stato bellissimo, ma adesso le restava addosso soltanto una grande e triste amarezza. Si odiava perché non era stata abbastanza egoista, o forse coraggiosa, da tradire la povera gente della missione in cui prestava servizio come tirocinante, in attesa di diventare dottoressa in medicina. Era certa che comunque, in qualche modo, laggiù avrebbe potuto comunque continuare a rendersi utile. Eppure, rinunciare così a quella che sembrava dover diventare la storia d’amore più importante di tutta la sua vita la addolorava molto. Ripensando ai pochi intensi attimi che aveva vissuto con lui, dagli scontri che avevano avuto all’inizio fino alla scoperta di un sentimento profondo, si assopì. Un lieve rumore la svegliò improvvisamente e lei sussultò per lo spavento, Sam era in piedi davanti a lei e la stava studiando, indeciso se svegliarla o meno. Era sudato, i muscoli delle sue possenti braccia erano turgidi a causa dello sforzo, aveva remato ininterrottamente per quasi tre ore.

«E’ partito?» gli domandò lei, lui annuì. Sarah si disse che l’aveva perso davvero, si coprì il viso con le mani e si costrinse a non piangere. «Hai fatto ciò che ti avevo chiesto?»

«Gliel’ho infilato nella borsa mentre lo abbracciavo.»

«Grazie» mormorò lei, poi non aggiunse altro. Il gigantesco uomo di colore capì che voleva stare sola e si allontanò.

Franco alza la testa, si sente stordito. Gli sembra impossibile essere l’autore di quelle pagine, eppure ha appena terminato di scrivere un intero romanzo. Mette distrattamente a fuoco i propri piedi, che penzolano nel vuoto come se fosse la cosa più normale del mondo. Fa leva con un piede sull’altro per sfilarsi le scarpe da tennis già slacciate, scalciando per lasciarle cadere nel vuoto. Una di esse rimane incastrata tra i fili per stendere i panni, due piani più giù, l’altra tocca il suolo dopo un volo di quindici metri e per poco non arriva dritta sulla piccola folla assiepata nel cortile. Franco guarda in basso e si stupisce di come siano piccole le teste dei curiosi, viste da lassù, addirittura più piccole dell’unghia del dito mignolo del suo piede. Un potente sferragliare, misto a un cigolio acuto attira di colpo la sua attenzione. Schermandosi gli occhi con l’avambraccio, per proteggerli dalla luce ancora intensa del sole morente, guarda avanti sé. Stagliata contro la palla rossa, la scala del camion dei Vigili del Fuoco è salita in alto. Adesso sta calando dritta verso di lui, senza fretta, scotendo le fronde dei pini. Per un attimo Franco la trova invitante, gli viene da pensare che forse sta sbagliando tutto. Si dice che magari sarebbe sufficiente che si lasci aiutare e che aspetti l’arrivo di sua moglie. Magari i mostri che ha nella testa scompariranno, improvvisamente come sono venuti, e lui potrebbe riabbracciare i suoi figli. Non li vede da appena pochi giorni ma gli mancavano già terribilmente. L’uomo sulla scala indossa una tuta di colore arancione bordata di strisce fluorescenti, è ancora lontano ma sta già tendendo un braccio verso di lui. Franco scuote la testa, deciso, si sente come avvolto in un invisibile bozzolo di ovatta grigia che lo tiene separato dal resto del Mondo e gli impedisce di vedere chiaramente le cose.

В«Vattene, lasciami in pace! Andatevene tutti, ormai ГЁ tardi!В» grida sbracciandosi, si sbilancia e scivola in avanti. Un capogiro lo fa sporgere eccessivamente, ma un attimo prima di precipitare nel vuoto riesce ad agguantarsi alla ringhiera, rimanendo sospeso nel vuoto, mentre i fogli che ha appena letto vengono portati via da un vento leggero.

«Stai calmo!» gli urla l’uomo sulla scala dopo aver ringraziato il Cielo, lo aveva già visto schiantarsi al suolo. «Tieniti forte e non agitarti, tra un momento sarò lì!»

Un mormorio trepidante si leva dalla strada per salire fino a lui, per un attimo Franco prova la tentazione di lasciarsi andare per cadere addosso a quei maledetti curiosi e spiaccicarne più che può. Ormai sono radunati lì sotto da un pezzo, immobili, attendono come avvoltoi che lui si schianti al suolo oppure che il pompiere lo salvi, per poi applaudire come tanti idioti al circo. Franco li invidia, sa che comunque andranno le cose, per loro ogni soluzione sarà buona. In ogni casa, tornando a casa avranno qualcosa da raccontare e un video da mostrare sullo smartphone. Guardando di sottecchi verso il salone vede la macchina per scrivere, appoggiata sul tavolo. Bella. Immobile. Lucida. E’ maledetta si dice per l’ennesima volta, poi comincia a ricordare.



CAPITOLO II





L’INCIDENTE AL LAVORO


Fine Luglio. Faceva caldo, nel cantiere. Troppo. Gocce scintillanti di sudore si riunivano in rivoli per scendere lungo i dorsi bronzei degli operai, e sulle loro fronti. Da lì scivolavano negli occhi, e bruciavano, e confondevano la vista. Era da poco terminata la pausa pranzo, un panino e una birra consumati all’ombra dei tubi prefabbricati di cemento che trasmettevano un tenue e illusorio senso di freschezza. L’aria era immobile, nonostante ci fossero ovunque uomini indaffarati, il saltuario crepitare del martello pneumatico rompeva un silenzio quasi innaturale. Franco Amore era il consulente tecnico di una azienda che installava infissi e la sua vita scorreva sui binari della tranquillità, senza troppe salite né facili discese. Aveva una moglie giovane con la quale fare ancora progetti e due figli con cui giocare, credeva nel bene e nell’amore, nella forza dei sogni e della fantasia. Per lui erano qualcosa di speciale, era convinto che l’amore sia l’unica cosa che rende veramente libero un uomo, che gli permette di essere sé stesso e di vivere le sue passioni. E ne aveva soprattutto una, di passione: la corsa. Amava correre a piedi nudi sulla sabbia come sull’erba, perché il contatto con il terreno morbido gli dava la sensazione di essere parte di quel mondo, a volte incomprensibile, che gli girava intorno. Il profumo dell’aria salmastra o dell’erba bagnata, respirato la mattina presto, erano per lui inebrianti almeno quanto un buon bicchiere di vino in compagnia degli amici. Come tutti i giorni Franco era sul ponteggio, a controllare che i lavori procedessero secondo le direttive impartite, ma quel pomeriggio percepiva nell’aria qualcosa di strano: il Sole cocente sembrava aver seccato esageratamente le tavole sporche di cemento, i tubi innocenti arrugginiti dell’impalcatura, tenuti insieme dai bulloni di ottone lucido, bruciavano più del solito.

Ancora pochi giorni, poi finalmente sarò al mare. Mi sento un po’ diverso dal solito, ma deve essere per via di questo caldo spietato. Devo resistere ancora un poco, stava pensando per darsi forza, ma appena ebbe terminato di formulare questa riflessione ebbe un giramento di capo. Mise un piede in fallo e cadde giù dal ponteggio.



В«Avete preso tutto?В» domandГІ Franco al piГ№ grande dei figli mentre li aiutava a caricare le valigie in auto.

«Stai tranquillo,» intervenne sua moglie Silvia anticipando il bambino, «abbiamo controllato tutto almeno dieci volte. È tutto a posto, possiamo dare il via al count-down…»

В«E allora perchГ© continuate a perdere tempo? Non voglio che siate ancora per strada quando farГ  buio!В» la rimproverГІ Franco, lei distolse lo sguardo e sospirГІ.

В«La stiamo tirando in lungo perchГ© lasciarti qui da solo non ci piace, siamo convinti che ti annoierai a morteВ» gli spiegГІ leggermente preoccupata lei mentre i figli annuivano.

В«Ma quale noia e noia, potete stare certi che qualcosa mi inventerГІ! E poi intendo approfittare di questi giorni per riposare, gli ultimi tempi al lavoro sono stati davvero duriВ» replicГІ lui, ma notГІ che la sua risposta non li aveva convinti affatto. Allora sfilГІ dal portabagagli un retino da pesca e mimГІ la camminata di un vecchio col bastone. В«In qualche modo me la caverГІ, anche se convalescente non sono ancora da casa di riposoВ» concluse, e finalmente i suoi figli risero. В«Forza ora, entrate in macchina e partite!В»

«Riguardati, e non fare sforzi, ricorda cosa ti ha detto il dottore» gli ripeté Sissi per l’ennesima volta.

В«Stai tranquilla. Appena mi consegneranno i risultati delle analisi salterГІ sul primo treno e vi raggiungerГІ.В»

В«Verrai davvero?В» gli domandГІ Giorgio, il figlio piГ№ piccolo.

В«Certo che verrГІ! Cercate di divertirvi e non fate arrabbiare la mamma, e soprattutto non state in pensiero per meВ» rispose Franco. Poi tornГІ a rivolgersi alla moglie. В«Fai la brava anche tu, vedi di non fare troppe conquiste, al mare. Guida con prudenza e chiamami appena arrivi.В»

Un bacio attraverso il finestrino della macchina, una strizzata d’occhio e via. Dopo averli accompagnati con lo sguardo fino alla curva, Franco rientrò in casa.

Dunque, vediamo un po’: da mangiare e da bere ci sono, libri e giornali pure. Il frigorifero è ben fornito e le pile del telecomando sono nuove di zecca… dovrei essere a posto per un pezzo. Dopotutto stare un po’ da soli ogni tanto fa bene, chissà quando mi capiterà di nuovo si disse convinto Franco, sforzandosi di trovare l’aspetto positivo della situazione. Ma malgrado tutte le sue buone intenzioni, non ricordava più cosa volesse dire passare un’intera giornata senza scambiare una sola parola con qualcuno. E anche se non osava confessarselo, la cosa lo spaventava un po’. Infatti, proprio come aveva temuto, trascorsi appena due giorni cominciò ad accusare la noia. Era stufo di leggere riviste e aveva fatto il pieno di televisione, era un uomo attivo e non era abituato a stare fermo, specialmente se qualcuno o qualcosa lo aveva costretto. Più di una volta fu tentato di indossare canottiera e pantaloncini per farsi una corsetta, ma i medici glielo avevano decisamente sconsigliato e lui rinunciò, seppure a malincuore. Tentò una serie di telefonate agli amici, ma queste andarono tutte a vuoto perché in piena estate la città si era trasformata in un grande deserto, così la solitudine iniziò a farsi davvero pesante. Una sera, dopo un’altra intera giornata trascorsa a sonnecchiare davanti alla tivù scese in cantina e la mise sottosopra, alla ricerca di qualcosa che lo aiutasse a trascorrere un po’ di tempo. Di colpo notò una macchina per scrivere, era seminascosta in un angolo basso di uno scaffale dietro un mucchio di cose inutili e coperta da un drappo di velluto di colore viola. Era tutta polverosa ed era tanto vecchia che le lettere sui tasti erano ormai quasi completamente cancellate.

Antica com’è deve avere un valore. Chissà come ci è finita, in questa cantina, magari era già qui quando abbiamo acquistato la casa… chissà se funziona ancora.



Felice di aver finalmente trovato qualcosa di quasi interessante a cui dedicarsi, L’indomani Franco smontò la macchina e trascorse l’intera giornata a pulirla, lucidarla e oliarla. Quando ebbe finito di rimontarla, arretrò di due passi per ammirare meglio il risultato del proprio lavoro. E’ proprio bella, ha il sapore delle cose antiche pensò soddisfatto. Immaginò uno scrittore seduto alla scrivania e una casa arrampicata sulla scogliera a picco sul mare, o magari un faro solitario piantato su uno scoglio in mezzo al mare. I cormorani e la luce di una candela, il rumore della risacca.

Chissà quali fantastiche storie hanno scritto con questo oggetto. Adesso che é tornata come nuova mi resta soltanto da collaudarla, fortuna che ho trovato anche i nastri con l’inchiostro in buone condizioni. Infilò un foglio bianco e verificò che tutti i tasti funzionassero. Soddisfatto del risultato si accese una sigaretta e prese una lattina di birra dal frigo, poi andò a stendersi in terrazza su un lettino da campeggio.

Ho fatto proprio un bel lavoro, ma purtroppo il divertimento è già finito. Dovrò escogitare alla svelta qualcos’altro per passare il tempo, altrimenti rischio di ammuffire considerò quasi preoccupato mentre si godeva il fresco della sera. Attraverso le sbarre della ringhiera punteggiate di ruggine osservò i bambini giù nei giardinetti, che correvano qua e là facendo a gara nel catturare lucciole. Lasciò correre lo sguardo sui palazzi, sulle finestre buie, sull’ombra fugace di qualche pipistrello. Infine si fissò ad osservare il cielo stellato mentre il canto dei grilli saliva fino a lui, accompagnando l’odore delle rose appena sbocciate.

Cosa posso fare? Ormai dormo poco, le giornate si stanno facendo sempre piГ№ interminabili. Ci penserГІ domani, adesso ГЁ ora di dormire.

Sulla scia delle sue riflessioni rientrГІ, diretto verso la camera, attraversando la sala passГІ davanti alla scrivania sulla quale aveva sistemato in bella mostra la macchina per scrivere e si fermГІ.



«Maledizione, che diavolo succede adesso?» grida il Vigile del Fuoco nella ricetrasmittente, sporgendosi a guardare i suoi colleghi dabbasso. La scala si era bloccata d’improvviso e aveva ondeggiato violentemente, se lui non avesse indossato la cintura di sicurezza sarebbe stato sbalzato giù dal contraccolpo.

«Abbiamo un problema… la cinghia di sicurezza gira a vuoto perché si è allentata una puleggia, mi serve qualche minuto per tirarla e stringere un paio di dadi» gli risponde una voce confusa nel gracchiare della radiolina.

«Qualche minuto? Io non ho qualche minuto, accidentaccio! Se non lo raggiungo subito, quell’uomo si lascerà cadere. Ha lo sguardo allucinato e ha appena gridato come un matto per cacciarmi via, mi sembra proprio che di cadere giù non gliene freghi niente. Vedi di muoverti, e intanto preparate il telone!»

«Il telone non c’è! L’hai mandato in manutenzione ieri, non te lo ricordi?» replica dopo qualche istante la voce dalla trasmittente.

В«E nessuno ha pensato a mettere sul mezzo quello di scorta?В» chiede incredulo il caposquadra sporgendosi ancora di piГ№ dalla scala, per frugare con gli occhi nel vano che solitamente ospitava il telone.

«A quanto pare no. Lo sai, in periodo di ferie c’è sempre confusione» mormora imbarazzata la voce nella radiolina, strappando un’altra imprecazione al Vigile del Fuoco. Torna a guardare l’uomo, che sta inesorabilmente scivolando verso il basso lungo stecche della ringhiera, le sue mani sudano a contatto col metallo e stentano a fare presa.

В«EhyВ» gli grida, Franco si volta a guardarlo distrattamente.

«Ehy, amico! Non mollare. Hai capito? Non mollare, mi raccomando. Tra poco sarò da te, devi soltanto tenere duro un altro po’. Tieni duro ancora un po’!» gli ripete, ma Franco non lo ascolta nemmeno. Gli risponde con un sorriso vago e incomprensibile, poi torna a fissare la macchina per scrivere e la pila di fogli dattiloscritti accatastati al suo fianco, il portacenere traboccante e la sedia girata con lo schienale verso la scrivania.

E’ cominciato tutto quella sera, quando mi sono seduto a quella dannata scrivania riprende a ricordare, mentre inconsapevolmente stringe forte le mani alla ringhiera viscida per non cadere.

Si, non c’è altra spiegazione: la macchina è maledetta…. e ormai è tardi… la punizione….



CAPITOLO III



LA PRIMA PAGINA



Quasi inconsciamente, come guidato da una forza misteriosa, Franco tolse il foglio imbrattato che aveva usato per provare la macchina e ne inserì uno pulito. Lo centrò per bene e cominciò a battere goffamente sui tasti, ripensando alla vista di cui si era compiaciuto poco prima.



CAPITOLO I (LA CASA DI CARPETTI)



Il cielo della sera era tanto pulito che le stelle si potevano quasi contare una ad una, mentre una mezza Luna affilata e lucente sembrava appesa a un filo invisibile, che andava a perdersi nell’infinito. Dalla finestra al terzo piano di un palazzone di periferia si notava, riflesso sulle tende, il baluginare delle immagini di un televisore. Era piccolo, in bianco e nero, di quelli rivestiti di plastica bianca con la classica antenna circolare attaccata sopra in modo sbilenco. Era poggiato sopra un massiccio mobile di colore marrone scuro, sul quale il tempo aveva impresso segni prepotenti. Accanto, una brutta statuetta di terracotta raffigurava chissà quale divinità africana.



Però, come inizio non è niente male. forse ho finalmente trovato la maniera di ingannare il tempo, si disse Franco rileggendo quello che aveva appena scritto. Ma dopo diversi fogli gettati nel cestino, e un altro paio di birre, allontanò la macchina per scrivere e si strofinò gli occhi, poi si alzò con uno scatto stizzito. Guardò l’orologio e decise di andare a dormire perché era già a corto di idee, come tutte le sere si addormentò con il pensiero rivolto alla moglie e ai bambini.



Le prime di lame di luce che filtravano dalle persiane lo sorpresero a fissare il soffitto, aveva un’espressione leggermente preoccupata sulla faccia dalla barba già un po’ troppo lunga.

Accidenti alle buone abitudini, non posso continuare a svegliarmi così presto! Se mi alzo adesso cosa mi metto a fare? si disse preoccupato. Allungò un braccio verso il comodino, prese l’ultima sigaretta dal pacchetto vuoto e lo accartocciò. Lo gettò a terra e guardò la piccola montagna di spazzatura che si era formata ai piedi del letto, si domandò se avesse voglia di raccoglierla e di andare fino in cucina per buttarla nella pattumiera. Si rispose di no con un’alzata di spalle e mise la sigaretta in bocca, si lasciò ricadere pesantemente e una volta disteso cercò di resistere alla tentazione di accenderla. Sto fumando troppo, è colpa della noia. Vorrei uscire un po’, ma con questo caldo devo essere prudente. Anche se si è trattato solo di un banale malore, non voglio rischiare di dover allungare questa convalescenza. I passerotti appostati sui cornicioni stavano salutando l’arrivo del nuovo giorno con una bella melodia e da là osservavano i movimenti giù in cortile, sapevano che di lì a qualche minuto l’anziana signora avrebbe buttato dalla finestra la loro colazione. E’ inutile, non riuscirò mai a riprendere sonno… è meglio se mi alzo si rassegnò dopo aver sperato per un po’ di riuscire a riaddormentarsi. Intanto, un senso di inquietudine si stava lentamente ma prepotentemente impadronendo di lui, aveva come la sensazione di aver lasciato qualcosa a metà ma non riusciva a ricordare cosa. Poco dopo era di nuovo seduto davanti alla macchina per scrivere con la sigaretta ancora spenta in bocca. Guardò a lungo la macchina, incerto, domandandosi se era davvero in grado di scrivere una storia. Squillò il telefono, quel suono improvviso a rompere il suo tentativo di concentrarsi lo disturbò. Per qualche istante pensò di non rispondere.

«Ciao, come state? … scusa, ero nel bagno» mentì storcendo la bocca, con gli occhi rivolti al soffitto. «Si, io sto bene, e voi? Vi state divertendo? Magnifico… passatemi la mamma… Allora, come ve la passate?… e i ragazzi? Si, io mi annoio da morire e sono ansioso di rivedervi….. ah ho una sorpresa per te… no, non te lo dico cos’è, altrimenti che sorpresa sarebbe? Va bene ci sentiamo presto… salutami i tuoi…”. tagliò corto, poi riattaccò il telefono e corse a sedersi, sbuffando ancora scocciato per quell’inattesa interruzione. Ho trovato: scriverò la storia di un uomo che vive solo si disse.



Squillò il telefono, l’uomo emerse con un sospiro dalla vecchia poltrona di pelle e si trascinò di malavoglia verso l’apparecchio.

«Pronto? Gianni! Io bene, tu come stai? Mi fa piacere sentirti… domani sera? No, domani sera proprio non posso. Ti dico che non è una scusa, lo sai che con voi due non mi sentirei mai di troppo… va bene, alla prossima non mancherò, lo prometto. Dai un bacio a Marta da parte mia» concluse l’uomo, poi ripose la cornetta e gettò un’occhiata ansiosa in salotto, verso il televisore. Ormai stavano scorrendo i titoli di coda.

Accidenti, mi sono perso il finale, si disse innervosito, ma sarГ  finito sicuramente bene. I film finiscono quasi sempre bene.

Dopo aver spento il televisore, sistemò per bene le sedie sotto il tavolo rivestito di formica verde, in modo che le zampe cadessero esattamente sugli angoli delle mattonelle. Sparecchiò e andò a dare due mandate alla porta di casa, dopo aver poi controllato due volte che il rubinetto del gas fosse chiuso, si recò in camera. Come tutte le sere, passando davanti al grande specchio posto in corridoio, smise di trascinare i piedi a terra e drizzò le spalle per verificare lo spessore della propria pancia. Costituzione pensò rassegnato ancora una volta, scotendo la testa. Più di una volta aveva provato ad eliminare la fascia di grasso che gli contornava addome e fianchi, vietandogli di indossare come si deve le camicie. Erano il capo di abbigliamento che amava di più, ma non aveva mai avuto abbastanza forza di volontà per seguire seriamente una dieta fino in fondo. E così come questa, le cose aveva cominciato nel corso degli anni per poi portarne a termine quasi nessuna erano molte altre. Con il rituale di sempre si preparò per andare a dormire: piegò accuratamente gli abiti e li posò sulla sedia a dondolo che stava sotto la finestra, poi indossò il pigiama preferito, quello grigio a rombi azzurri ormai consumato all’altezza dei gomiti e delle ginocchia. Pose le ciabatte ai piedi del letto in modo che fossero perfettamente parallele e si coricò.



Di nuovo gli occhi rivolti al soffitto e la sigaretta ormai gualcita in bocca, di nuovo sveglio così presto. Ma quella mattina si sentiva peggio della precedente, aveva dormito poco e male e il suo sonno era stato turbato da un brutto incubo: un uomo col camice bianco e gli occhiali gli diceva di non aver paura, che aveva una brutta malattia ma che la poteva vincere. E lui si sentiva impotente, anche se aveva tanta voglia di vivere. Colpa delle zanzare e di questo maledetto caldo minimizzò, ma la solitudine e il silenzio sembravano aver ingigantito quelle brutte sensazioni. Malgrado i suoi tentativi di pensare ad altro, continuava a provare un’angoscia quasi fisica, che lo avvolgeva come le spire di un serpente.

Almeno, sono riuscito a stare un giorno senza fumare… vedremo quanto durerò. Prese dal comò quell’unico foglio che aveva scritto il giorno prima e lo rilesse, nella speranza che gli venisse una qualche idea per proseguire il racconto. Quell’uomo solo scopre di essere ammalato… si è ammalato perché ha perso il senso delle cose… il senso dell’amore… si, ecco: ha perduto il senso dell’amore e si è lasciato andare si disse pensando al protagonista del suo romanzo. Non ha più voglia di vivere, ma forse, se qualcuno glielo insegnerà potrà guarire. Chissà, magari incontrerà una specie di guida spirituale, un guru o qualcosa del genere. In ogni caso sarà un tipo un po’ strano, un uomo che porta con sé una grande amarezza oppure un grande segreto. Lo chiamerò Walter, mentre il protagonista deve avere un nome comune, normalissimo. Lo chiamerò… accidenti, è difficile persino trovargli i nomi, ai personaggi. Mah, per ora lo chiamerò per cognome, poi si vedrà: lo chiamerò Carpetti, mi sembra un cognome abbastanza anonimo. E il romanzo, o racconto, o quello che ne verrà fuori, lo ambienterò in autunno, sperando che questo mi aiuterà a sentirmi più fresco. Seguendo questo lampo di ispirazione scese al volo dal letto per andare a scrivere, senza neanche pensare alla colazione, ma barcollò e cadde. Si rialzò guardandosi intorno perplesso e constatò stupito che ai suoi piedi non c’era niente, quindi non era caduto per aver inciampato in qualcosa. Si preoccupò solo per un istante, poi non ci pensò più: quel suo nuovo bisogno era più forte di lui, doveva mettersi immediatamente a scrivere altrimenti l’idea sarebbe volata via.



CAPITOLO II (CARPETTI DAL DOTTORE)



La radiosveglia si accese alle sei e mezza, giusto in tempo per l’appuntamento con l’oroscopo del nuovo giorno. Mentre lo ascoltava senza crederci più di tanto, Carpetti rifece il letto con cura, in modo che sulla coperta non restasse neanche la più piccola piega. Poi si recò in cucina e aprì due arance, come ogni giorno si preparò una spremuta per prevenire il raffreddore. Tirò fuori dal congelatore il quello che sarebbe diventato il suo pranzo e lo mise nell’acquaio, poi si preparò per uscire. Quella mattina doveva ritirare il risultato delle analisi a cui si era sottoposto qualche giorno addietro per verificare l’origine di alcuni disturbi. Il medico lo aveva tranquillizzato dicendogli che doveva sicuramente trattarsi di una cosa da niente, ma aveva comunque insistito affinché si sottoponesse a un check-up completo. Dato che la mattina non aveva mai troppa voglia di conversare, soprattutto riguardo le banalità tipo il tempo, Carpetti evitò di prendere l’ascensore per non rischiare di incontrare qualcuno. Giunto al portone d’ingresso, trasse un profondo respiro e aprì la porta per tuffarsi nel Mondo. Avviandosi verso la fermata dell’autobus, con le mani in tasca e la testa china, si rese conto che era una di quelle giornate caratteristiche del cambio di stagione tra l’autunno e l’inverno, fresca e luminosa. L’alito formava quelle nuvolette che paiono essere fatte di fumo di sigaretta, l’erba del prato condominiale era coperta di brina e qualche rara folata di vento interrompeva bruscamente il cinguettio degli uccelli. Giunto in Centro scese dall’autobus, guardando l’orologio del campanile si rese conto di essere arrivato troppo presto. Si chiese come avrebbe potuto sfruttare quella mezz’ora ma non gli venne in mente niente, così si strinse nelle spalle e cominciò a curiosare di vetrina in vetrina. Le mamme stavano accompagnando i bambini a scuola, dai panifici usciva un buon aroma che sembrava scaldare l’aria e il camion della nettezza stava rumorosamente svuotando i cassonetti. La città era viva ma lui non se ne accorgeva, riusciva solo a vedere la propria immagine distorta riflessa nelle grandi vetrate. A un certo punto provò un lieve senso d’invidia, o forse di imbarazzo verso sé stesso, nel vedere due ragazzini che entravano a scuola, zaino in spalla e mano nella mano. Ma quella sensazione durò poco, subito dopo si infilò nel portone dello studio medico. La sala d’attesa era ben arredata, con comodi divanetti dai chiari colori sfumati, varie riviste specialistiche erano messe in mostra di proposito su un bel tavolo in ferro battuto col ripiano in vetro molto spesso. Appese alle pareti bianchissime, le copie di alcuni quadri di Picasso facevano compagnia agli attestati di partecipazione a corsi di aggiornamento, inerenti nuove particolari terapie per la cura dell’asma. Completava l’insieme una bella composizione di piante grasse sistemata in un angolo. Carpetti odiava recarsi là, trovava quel posto troppo freddo e silenzioso. Malgrado fosse un maniaco dell’ordine e della pulizia, quell’ambiente così bianco e freddo gli trasmetteva un senso di smarrimento. Si sedette e cominciò a sfogliare una rivista senza leggere perché in realtà stava facendo, come sempre, il gioco dei luoghi comuni. Scommetteva con sé stesso che avrebbe indovinato in anticipo, nella blanda conversazione che stava svolgendosi in sala d’attesa, cosa stava per dire la persona che stava parlando. E’ per questo che il mondo gira storto. La gente ha la testa piena di luoghi comuni, ovunque vai senti gli stessi discorsi…. stava pensando, quando venne il suo turno.

«Buongiorno dottore» salutò entrando, senza mostrare alcun entusiasmo. Il medico sedeva nell’angolo sinistro in fondo alla stanza lunga e stretta, dietro di lui, a fianco alla tabella per la misurazione della vista, una finestra dava su un viale alberato. Carpetti pensò che, a colpo d’occhio, quell’uomo sembrava un pezzo appartenente a quella collezione di oggetti rigorosamente bianchi e silenziosi. Quasi come se fosse privo di una vita propria e stesse sempre là dentro, seduto dietro a quella scrivania. In quel contesto di oggetti rigorosamente chiari, l’unica cosa che spiccava era un orologio da tavolo a forma di piramide, nero, che pareva dominare l’ambiente per lanciare un monito: “Il tempo è prezioso”.

«Buongiorno signor Carpetti. Si accomodi» rispose il dottore, stava giocherellando nervosamente con un’elegante penna rifinita in oro.

«E’ una cosa lunga?» replicò lui, allungando una mano verso una busta con il suo nome scritto sopra.

«Debbo parlarle» lo informò il medico tirando a sé la busta un attimo prima che lui riuscisse ad afferrarla. Allora lui si lasciò cadere di malavoglia sulla sedia, indispettito perché il dottore gli aveva sottratto la sua busta, e incrociò le braccia al petto a mostrargli tutto il suo disappunto. Di tanto in tanto il vento spingeva i rami ormai quasi del tutto spogli di un’acacia contro il vetro della finestra, producendo un orribile rumore stridente, il cielo si era rabbuiato e pareva indeciso se piovere o no.

В«Avanti, la ascoltoВ» lo esortГІ Carpetti richiamando il medico, che si era come distratto.

«Lei ha un problema» esordì questi a bassa voce, senza guardarlo negli occhi.

«Accidenti… niente di grave spero.»

«Mi spiace dover essere brusco, ma purtroppo temo di sì.»

Il disagio di Carpetti si trasformò subito in un’angoscia profonda, adesso le parole del dottore avevano fatto sì che la stizza lasciasse il posto alla paura.

В«Si spieghi meglio, per favore.В»

«Vede, lei deve cominciare ad abituarsi all’idea che non potrà più fare le cose come prima» cominciò a spiegargli l’altro da dietro gli occhiali. Qualche schizzo di pioggia aveva intanto preso a battere sulla finestra per scivolare veloce sul vetro lindo. Il dottore, sempre più imbarazzato, aveva preso a caricare l’orologio da polso, Carpetti sentì il proprio sangue farsi strada a fatica nelle vene, come se fosse diventato improvvisamente densissimo.

В«Non capiscoВ» mormorГІ, e adesso un artiglio gli torceva lo stomaco. Intanto lottava contro un presentimento improvviso, le mani gli si erano fatte umide e gelate.



E ora che malattia gli faccio venire? Mica sono un dottore! Temo di aver scelto un passatempo troppo difficile, forse sarebbe stato meglio provare a scrivere qualcosa di comico pensò Franco mentre si dirigeva verso il frigo per prendere una lattina di birra fresca. Aveva trascorso diverse ore a sedere, giunto davanti al frigo si stiracchiò e un nuovo senso di vertigine lo fece quasi cadere. Ma cosa diavolo mi sta succedendo? si chiese leggermente spaventato, appoggiandosi alla spalliera di una sedia. Non vedo l’ora che mi consegnino i risultati delle analisi, questi giramenti di testa cominciano a preoccuparmi. Tolse la sigaretta di bocca e se la incastrò nell’incavo tra l’orecchio e la testa, poi stappò la lattina e diede una lunga sorsata. Volendo, la malattia di Carpetti me la posso anche inventare. In fondo si tratta di un’opera di fantasia, e poi deve essere quasi una cosa psicosomatica, quindi può essere qualsiasi cosa. Una cosa che deriva dal suo male di vivere, come se lui si stesse pian piano lasciando morire. Magari facendo una scorrazzata su internet trovo qualcosa di interessante, più tardi darò un’occhiata. Seguendo il corso delle sue riflessioni era di nuovo arrivato davanti alla macchina per scrivere.



CAPITOLO III (OTTO MESI)



«Questa malattia nasce nell’emisfero destro del cervello e va a interessare diversi organi, rallentandone progressivamente l’attività fino a bloccarla del tutto.»

«Per favore, dottore, sia più chiaro! Ancora non capisco, dal suo tono di voce sembrerebbe che io stia per morire» lo interruppe Carpetti, a quelle parole il dottore ebbe un sussulto e l’orologio gli scivolò via dalle mani. Non appena toccò terra, il vetro a protezione del quadrante si incrinò mandando un suono secco e aspro. Un’espressione di disappunto attraversò la faccia del medico, ma solo per un fugace attimo, poi questi prese a guardare alternativamente il paziente e la sua busta contente il referto, senza però dire una sola parola.

«Dottore…» lo incalzò allora Carpetti con un filo di voce.

В«Si tratta di una malattia che inibisce lo svolgimento dei processi rivolti al rinnovo dei tessuti dei principali organi, portandoli a invecchiare molto rapidamente.В»

Il brutto presentimento che aveva accompagnato Carpetti fin dal primo risveglio si era tramutato in una terribile realtà. Si sporse verso l’altro come per sentire meglio, gli sembrava che tutto quanto attorno a lui fosse diventato confuso e molliccio, ovattato, e lui voleva essere sicuro di non aver capito una cosa per un’altra.

«Questa malattia è molto rara, si chiama…» riprese a spiegargli l’altro con una lentezza esasperante, nel tentativo di portare il paziente al dunque nel modo più dolce possibile.

«Basta!» lo interruppe Carpetti, il tono della sua voce si era fatto piagnucoloso. «Voglio sapere quanto mi resta… cosa vuole che mi importi del nome, mi dica quanto mi resta da vivere» implorò il medico ad afferrandolo per un braccio.

«Otto mesi. Forse un anno, se seguirà le cure che le prescriverò. Sono costosissime, dovrà chiedere l’esenzione dal pagamento al Distretto Sanitario della sua zona» sentenziò finalmente tutto d’un fiato il dottore, dopodiché si sentì improvvisamente più leggero. Carpetti si buttò a terra tenendosi la testa tra le mani.

«Otto mesi…otto mesi…»



Franco sfilò il foglio dalla macchina, che gli rispose col tipico rumore che fa il mulinello di una canna da pesca quando si lancia la lenza. Lo adagiò sulla piccola risma e la compattò con le mani sorridendo molto soddisfatto, ma la sua testa cominciò a essere invasa dai dubbi. E adesso come proseguo? Ho il sospetto di essermi spinto troppo oltre, scrivere una storia che tratta un argomento del genere è difficile, e fare in modo che chi lo leggerà non lo trovi noioso e angosciante è praticamente impossibile. E da adesso in poi per scriverla come si deve dovrei immedesimarmi nel personaggio, dovrei riuscire a provare ciò che proverebbe Carpetti, pensare e vivere come penserebbe e vivrebbe lui. Come un uomo che ha pochi mesi di vita… chissà che cosa farei… dovrei essere proprio lui per saperlo.



CAPITOLO IV



LE ANALISI DI FRANCO



Come se si rese improvvisamente conto di trovarsi in una situazione assurda, o come se gli fosse venuto a noia restare appeso, Franco comincia a far oscillare le gambe con l’intenzione di portare un piede fino al bordo sporgente del terrazzo. In quel modo potrà puntellarsi e sfruttare così al meglio la forza delle braccia, a quel punto dovrà soltanto scavalcare la ringhiera e tornare dentro. L’improvviso urlo di una sirena squarcia il silenzio carico di apprensione, le teste degli spettatori si voltano tutte insieme come in una coreografia. L’ambulanza si ferma facendo stridere i pneumatici, subito dopo ci sono movimenti frenetici e ordini concitati, una barella viene rapidamente estratta dal vano posteriore del mezzo di soccorso. Una macchia bianca che si guarda attorno spaesata attira d’un tratto l’attenzione di Franco. Maledetto testardo, alla fine mi ha trovato! pensa riconoscendo il medico, mentre finalmente appoggia anche il secondo piede sul pezzetto di terrazza che sporge oltre la ringhiera.

«Bravissimo, dacci dentro con quelle gambe. Sei forte, ci sei quasi! Non mollare proprio adesso!» lo incita il Vigile del Fuoco da sopra la scala, vedendo che è quasi riuscito ad arrampicarsi sul terrazzo. «Tra un minuto sarò lì, tieni duro per amor di Dio» insiste, ma Franco non lo sta ascoltando. E’ riuscito a puntellare per bene i piedi e adesso sta forzando per spingersi in alto. Quando si sente sicuro lascia libera una mano dalla presa della ringhiera per afferrare il corrimano e issarsi in piedi, ma mentre allunga il braccio verso la stecca orizzontale, la sensazione di due occhi puntati nella schiena gli fanno perdere la concentrazione. Guarda verso il basso e individua nuovamente il medico, lo sta fissando a bocca aperta mentre si passa una mano tra i capelli, apparentemente preoccupato. Quell’uomo vorrebbe correre su da Franco per soccorrerlo Franco, ma un agente pensa che potrebbe essere pericoloso e l’o ha trattenuto dabbasso. Franco nota che quell’uomo stringe in mano una busta di carta gialla, allora gli lancia uno sguardo carico di odio. Tienila per te quella maledetta busta! Non la voglio, non lo hai capito? sta per gridargli mentre si slancia per scavalcare la ringhiera, ma la mano sudata scivola via lungo la plastica di rivestimento del corrimano. Franco ricade ma riesce a tenere la presa dell’altra mano, rimane appeso per un solo braccio penzolando nel vuoto come una foglia secca al vento. Gli spettatori mormorano qualcosa, sgomenti, intanto Franco ha ricominciato a ricordare.



Accidenti, ancora una volta sveglio prima dell’alba aveva pensato turbato Franco quella stessa mattina schiudendo gli occhi. Aveva perso la sua personale battaglia col tabacco appena al quinto giorno di solitudine e aveva ripreso a fumare più forte di prima, con gli occhi ancora chiusi cercò a tentoni il pacchetto e con gesti automatici e rassegnati si accese la prima sigaretta del nuovo giorno, che gli rinnovò il bruciore allo stomaco. Mentre aspirava pensieroso scoprì di non ricordare quante albe consecutive aveva ormai visto e quanti giorni erano che non dormiva nel suo letto. Si sentiva completamente svuotato, privo di energie. Dopo che era stato rispedito due volte indietro a mani vuote a causa di problemi tecnici, quella mattina gli avrebbero finalmente consegnato i risultati degli esami clinici. Non avrebbe saputo dire con precisione quando era successo, ma il continuo andirivieni di dolorose fitte appena dietro l’orecchio destro, che si ripeteva ormai da giorni, lo aveva fatto precipitare nella paranoia. Negli ultimi giorni le fitte si erano fatte sempre più frequenti e dolorose, ad accompagnare i giramenti di capo sempre più lunghi e preoccupanti. E questo aveva generato in lui un brutto presentimento che pazientemente, giorno dopo giorno, aveva minato il suo equilibrio fino a fargli compiere gesti assurdi. Si trattava di quella stessa paura dalla quale era scaturita la sua di volontà di finire ad ogni costo la storia che stava scrivendo, per lasciare qualcosa di sé in quella che si era convinto che fosse una specie di assurda corsa contro il tempo. Ed ogni suo singolo gesto, ogni suo singolo pensiero dettato dalla paura aveva infine generato nuovo terrore, come in una spirale composta di una quantità infinita di anelli. Il terrore di una punizione per ciò che aveva fatto, di una condanna alla sofferenza eterna, di una condanna a morte quasi certa. Andando in bagno passò accanto al corpo senza vita del gattino e fece una faccia schifata, ma subito dopo si fermò per osservarlo meglio, per guardare l’espressione di quegli occhi senza vita. Voleva controllare una volta di più se aveva descritto bene la sofferenza, lo stupore che deriva dal non aver capito il perché della propria morte. Si abbassò un po’, ma la puzza gli penetrò violentemente nelle narici e un violento conato di vomito lo scosse in profondità. Si rialzò e sferrò un calcio stizzito al corpo senza vita, alzando un nugolo di mosche. Andò in bagno e si infilò nella doccia, mentre l’acqua bollente continuava a picchiettargli la schiena si immedesimò in un inquisito ammanettato al banco degli imputati, in attesa della sentenza. Con la fantasia visse chissà quanti processi, così come aveva vissuto a fondo, fino a confondere completamente l’immaginazione con la realtà, le pagine che egli stesso aveva scritto.

L’imputato è colpevole. Deve morire, continuava a ripetersi mentre si asciugava. E mentre si vestiva, e poi camminando per strada verso l’ospedale. E nella sala d’attesa dell’ambulatorio, finché il dottore gli si fece incontro e lo salutò cordialmente tenendo una busta gialla in mano. Alla vista di quella busta Franco aveva improvvisamente sentito il cuore battergli con violenza nel petto, impazzito, come se avesse voluto scappargli via. Il dottore esitò, colpito dal suo aspetto, lo conosceva fin dai tempi della scuola e non l’aveva mai visto in quelle condizioni.

«Ciao, Franco» lo salutò tendendogli la mano, ma Franco non rispose al saluto. «Franco… ti senti bene? Non hai una bella cera» lo incalzò preoccupato il medico, l’altro lo fissava tremando con gli occhi e la bocca spalancati. «Franco… » insisté il suo amico, ma di nuovo lui non rispose. Continuò a guardarlo con espressione folle, gli occhi iniettati di sangue, aspettando la sentenza col fiato sospeso.

«Mi spiace che tu abbia dovuto aspettare tanto, ma i macchinari hanno avuto dei problemi e la maggior parte del personale era in ferie… e poi avevamo un dubbio, che ora finalmente è risolto. I risultati delle tue analisi dicono che… »

«Noooo» gridò Franco, che nella propria mente aveva vissuto mille volte quella scena, si girò su sé stesso e fuggì per sottrarsi alla sentenza. Il dottore lo guardò incredulo correre via, poi cominciò a inseguirlo per fermarlo. Ma pian piano la distanza si era fatta proibitiva, quell’uomo allucinato era inarrestabile. E’ terribile, è proprio come l’ho raccontato. È terrificante… povero Carpetti… povero me… pensava Franco continuando a correre come se alle spalle avesse avuto il Diavolo in persona.



CAPITOLO IV (VERSO CASA)



Non è possibile perché proprio io? C’è un errore… ci deve essere per forza un errore continuava a ripetersi Carpetti, seduto sulla poltroncina dell’autobus che lo stava riportando a casa.

“Potrà continuare a lavorare finché se la sentirà. Inoltre la comunità scientifica sta lavorando sodo e sta facendo passi da gigante, è molto probabile che in un tempo così lungo riesca a trovare la maniera per allungarle la vita, se non addirittura una cura definitiva… quindi lei deve cercare in tutti i modi di non lasciarsi andare, di non mollare. In ogni caso posso garantirle che non soffrirà. Non è molto, ma è tutto ciò che posso dirle… mi spiace” gli aveva detto il dottore. D’un tratto Carpetti si sentì come se gli mancasse l’aria, si sbottonò la camicia a quadri e si curvò in avanti, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e la busta gialla arrotolata stretta in una mano. Davanti a lui due donne stavano discutendo l’andamento dei prezzi dei pomodori, un’altra, anziana, raccontava a un conoscente le peripezie del figlio emigrato all’estero. Sicuramente c’è uno sbaglio, quello di cui parlano questi fogli non sono di certo io si disse ancora una volta Carpetti, sentiva il bisogno di correre a casa, nel suo rifugio. Là avrebbe potuto pensare un rimedio, trovare una soluzione, avrebbe riletto con calma quei fogli e avrebbe scovato l’errore. Ma la strada non finiva mai, le pensiline delle fermate, coi vetri erano rotti e i poster pubblicitari strappati, sembravano essersi moltiplicate all’infinito. Finalmente l’autobus si fermò giusto davanti al condominio dove abitava, lui scese al volo e salì le scale di corsa, col cuore in gola. Chiuse la porta a chiave e vi si appoggiò contro con le spalle, come per evitare che qualcosa del Mondo esterno potesse penetrare in casa sua a contaminarla. Gettò a terra la giacca si sfilò via la camicia, facendo saltare l’ultimo bottone. Con mani tremanti strappò un lembo della busta, dopo aver riletto chissà quante volte quel foglio si buttò in ginocchio balbettando qualcosa tra sé.



Sudore. Abiti appiccicati addosso a impacciare i movimenti, a renderli perfettamente uguali tra loro come quelli di un soldato che marcia. Il passo risuonava ritmico e veloce, tra i corridoi dai soffitti alti e dalle pareti tinteggiate di bianco plastificato. Franco correva fissando un punto che vedeva soltanto lui, ignorando gli sguardi straniti della persone che al suo passaggio si affrettavano ad appiattirsi contro il muro per evitare di essere travolte. Il cuore sembrava volergli scoppiare nel petto, le vene bluastre sulle tempie si dilatavano sempre di più tendendo ulteriormente la pelle del viso pallido e magro sul quale risaltavano occhi stanchi da pazzo, contornati da un alone violaceo. Sentiva le gambe pesanti come piombo, ogni nuovo passo era una sofferenza indicibile ma lui non poteva fermarsi. Correva per fuggire dall’uomo che lo inseguiva gridando il suo nome e si reggeva gli occhiali per non perderli, quell’uomo con la busta gialla della sua condanna che sorgeva dalla tasca del camice. A ogni passo le spalle di Franco si incurvavano un po’ di più in avanti, i suoi polmoni erano sempre più assetati d’aria, ogni suo movimento sembrava essere l’ultimo prima di una rovinosa caduta. Ma là in fondo c’era la strada, dalla grande vetrata entrava un cubo di sole e lui sentiva già il rombo delle auto ferme al semaforo e la sirena di un’autoambulanza in arrivo. Si guardò le mani che gli apparivano e scomparivano ai fianchi e le immaginò intrise di sangue, gli sembrava che stessero lasciando una scia rossa sul pavimento. E quell’uomo dietro di lui non voleva mollare, non riusciva a raggiungerlo ma non si dava per vinto.

E’ la punizione, pensava Franco mentre ormai era in strada, ma non voglio…..no, non voglio! gridò senza accorgersi delle persone che lo fissavano inorridite. Correva in avanti, senza una méta, ma la sua mente andava all’indietro…



E’ davvero ora che vada a dormire, sono completamente distrutto. No, maledizione, si disse sbattendo un pugno sul tavolo, devo andare a prendere le sigarette. Sono giorni che non fumo, se continuo così impazzisco. Adesso è sera inoltrata e non fa più troppo caldo, non vedo cosa mai potrebbe accadermi di male se esco di casa per dieci minuti. Si infilò frettolosamente una maglietta e passando davanti si soffermò a guardare incredulo la propria immagine riflessa, per un lungo attimo aveva stentato a riconoscersi.

Accidenti, come mi sono sciupato. La barba lunga, questi capelli… e sono anche dimagrito un sacco! E questo sguardo…. non ho mai avuto questa espressione… chi se ne frega, tra pochi giorni andrò in ferie e mi rimetterò in sesto cercò di rassicurarsi, si riavviò con le mani i capelli spettinati e uscì. Devo pazientare ancora solo pochi giorni, poi la convalescenza sarà finita e sarò di nuovo un uomo libero, si stava dicendo poco dopo, mentre tornava a casa con le tasche piene di pacchetti di sigarette. Era ansioso di ritirare il risultato di quei dannati esami che gli avevano azzerato la vita, per potersi finalmente ricongiungere ai suoi familiari. A cavallo di questi pensieri, proprio mentre infilava il vialetto del giardino condominiale giudicando che quella passeggiata gli aveva fatto addirittura bene, si ritrovò disteso a terra perché per un attimo la vista lo aveva abbandonato. Maledizione, ma che accidenti mi sta succedendo? si chiese impensierito, intanto una sensazione simile a quella che aveva descritto poco prima nel suo racconto si stava rapidamente impadronendo di lui. E’ impossibile che io sia malato sul serio, ho sempre fatto vita sana e regolare… e poi non ho mai fatto male a nessuno: non lo meriterei… accidenti, ora parlo proprio come Carpetti! …che stupido, mi sono immedesimato a tal punto che mi sto condizionando da solo! Devo smetterle di pensare a queste sciocchezze! Ma invece, malgrado i suoi ripetuti tentativi di pensare ad altro, quell’angoscia profonda come il mare non voleva proprio saperne di abbandonarlo. Sapendo che teso com’era non sarebbe riuscito a dormire, quando rientrò sedette alla scrivania. Vampate di calore gli salivano dal petto verso le tempie, con mani tremanti aprì il pacchetto e sfilò una sigaretta. La mise in bocca e l’accese, ma non la traspirò perché era ancora spaventato dall’episodio che gi era accaduto poco prima. Trovò che l’odore era buonissimo, gli aveva ricordato la prima sigaretta che aveva fumato tanti anni prima nascosto in giardino, in una bella mattina di Sole. Tirò una boccata e cominciò a tossire. Si sentiva la bocca amara, il sapore sgradevolissimo gli aveva contaminato ogni angolo della lingua e adesso lottava per tenere a freno l’impulso di vomitare. Ma sapeva perfettamente cosa doveva fare per tornare a provare il piacere illusorio del fumo: tirare di nuovo, e poi ancora, e ancora. Aspirò una nuova boccata e la sua tosse si placò, tutto sembrò cominciare a tornare normale.

Potrei chiamare Silvia, magari sentire la sua voce mi calmerebbe… no, è meglio di no. Se la chiamassi a quest’ora, si spaventerebbe. Devo soltanto riuscire a tranquillizzarmi e andare a dormire. Sono solo un po’ stanco, e soprattutto nervoso. Intanto, dopo appena altre due boccate di sigaretta la testa aveva preso a girargli di nuovo e la sua fronte si era imperlata di sudore freddo. Alcune gocce caddero sul foglio a sbiadire le parole scritte da poco, allora si alzò e cominciò a camminare lentamente avanti e indietro per la casa. Sto male, devo sentire Silvia si disse afferrando la cornetta, ma dopo aver composto il numero per metà riattaccò. Andò in camera e si stese sul letto, ma non riusciva a prendere sonno. Una brezza leggera scuoteva le tapparelle producendo un suono simile al ticchettio dei tasti di una macchina per scrivere, il profumo dell’erba umida penetrava fino in casa. Gli tornò a mente la corsa e si rese conto di quanto gli mancasse, il pensiero che presto avrebbe potuto ricominciare ad allenarsi non riuscì a rasserenarlo. E’ inutile pensò dopo aver sbuffato una volta di più. Si portò davanti al frigorifero e prese una lattina di birra, la stappò e si accese un’altra sigaretta, infine tornò ancora una volta a sedersi davanti alla scrivania.



CAPITOLO V (AUTOCOMMISERAZIONE)



Ma quale che disgrazia può essere, questa, per uno come me? Quale tragedia può essere per uno che ha trascorso la vita da solo, circondato da manichini che vedono, si muovono, e sorridono sempre allo stesso modo…. e oggi uno di questi manichini viene a dirmi che ho i giorni contati! Proprio io, che pensavo che dover lottare ogni giorno con le mie paure e con la solitudine fosse già una punizione abbastanza severa, dato che non ho mai fatto niente di male si disse Carpetti, andò in corridoio e accarezzò la propria immagine riflessa nello specchio. Rimase in silenzio per alcuni istanti, poi con voce cantilenante cominciò a parlarle.

«Guardati: a cosa ti è servito arrivare fino a oggi? A cosa ti è servito arrivare ogni giorno al Domani, sperando che quel domani fosse migliore, se oggi scopri di non avere più domani? A cosa ti sono serviti i sacrifici e le speranze, se questa è la ricompensa? Tra poche settimane di te non resterà che un vago ricordo in pochissime persone, finché si spegnerà con loro. Persino le tue scarpe, vecchie e consumate come sono, ti sopravvivranno senza neanche sapere perché.» Continuando a farfugliare era entrato nel suo piccolo studio, dove in bella mostra su un ripiano della libreria c’era la sua collezione di animaletti di ceramica dipinti a mano. Si fermò proprio lì davanti, col tono della voce che cresceva di parola in parola.

«Anche voi mi sopravvivrete. Voi, che senza di me non sareste mai esistiti, se non vi avessi creato io non lo avrebbe fatti nessuno! Voi, che senza il valore che vi do io non valete niente… non è giusto… no, non è giusto!» gridò spazzandoli rabbiosamente via dal ripiano con l’avambraccio. Le statuette caddero a terra e Carpetti cominciò a calpestarle e a prenderle furiosamente a calci, urlando e piangendo, finché così come aveva cominciato si bloccò di colpo. Andò a sedersi col vago intento di riflettere, e dell’uomo meticoloso e ordinato che era uscito di casa appena tre ore prima non era rimasto niente. I riccioli neri gli si erano gonfiati a dismisura in tutte le direzioni, la fronte convessa si era riempita di rughe rossastre, le punte interne delle sopracciglia erano protese verso l’alto come in una supplica. Gli occhi erano gonfi come se avesse pianto per giorni, un tremito prepotente lo scuoteva da capo a piedi. Nel volgere di poche ore aveva perso tutto quanto, tutte le inutili certezze che lo avevano portato fino a lì: cercare di vestirsi in modo inappuntabile, controllare sempre che fosse tutto in ordine, arrivare sempre in anticipo di cinque minuti. Guardare il primo telegiornale della mattina per essere informato su tutto, per avere la sensazione di essere padrone degli eventi. Tutte le cose che lo avevano aiutato a non pensare, che gli avevano sempre dato sicurezza, non avevano ormai più alcun senso. Niente aveva più senso, e d’improvviso lo colse il dubbio che niente lo avesse mai avuto.

«Le medicine» si disse a voce alta scattando in piedi, si vestì di nuovo e uscì di corsa. Mancavano pochi minuti a mezzogiorno, presto gli uffici sarebbero chiusi.



Uff, non pensavo che scrivere fosse così impegnativo! E poi, temo che questa storia sia troppo patetica, troppo noiosa… a chi potrebbe mai interessare una storia come questa? E poi ora come vado avanti? Avevo tante idee, ma ogni volta svaniscono di punto in bianco… È strano, è come se io decidessi che il racconto deve procedere in una certa direzione e che invece poi lui facesse di testa sua… Cosa farà adesso Carpetti? E quelle medicine? Gliele daranno, o magari gliele negheranno perché supera il reddito? Non ci sarebbe certo da meravigliarsi, di questi tempi! E la sua guida spirituale come gliela faccio incontrare? E soprattutto, chi diavolo è la sua guida spirituale? Mah, proviamo ad affrontare un problema alla volta! Queste erano le riflessioni di Franco mentre si gustava un tè freddo, disteso sul lettino in terrazza. Intanto si godeva gli odori che salivano con la frescura della sera, dopo che l’aria era stata irrespirabile per tutto il giorno. D’improvviso gli tornò a mente un articolo di giornale che aveva letto qualche tempo prima. Parlava di un vecchio rimasto senza denti durante la guerra, un giorno lo Stato gli aveva intimato di pagare la dentiera che gli aveva dato oppure di restituirla.



CAPITOLO VI (NIENTE MEDICINE)



«Buongiorno. Ho un problema» esordì Carpetti, la donna aldilà del vetro gli rispose con uno sguardo infastidito. Era pesantemente truccata e ingioiellata, come se dovesse andare a una festa, aveva già indossato il cappottino col collo di pelliccia e non si preoccupò minimamente di nascondere il proprio disappunto per l’ora tarda.

В«Dica pureВ» replicГІ senza alcuna partecipazione.

«Mi è stata appena diagnosticata una malattia per la quale devo prendere un farmaco molto costoso… sono venuto a chiedere l’esenzione.»

В«Allora dovrГ  tornare, intanto le do questi due fogli. Sono la domanda da compilare e la lista dei documenti da allegare.В»

«Non c’è bisogno che io torni, ho tutto qui con me. Se mi concede tre minuti compilo la domanda mentre lei controlla i documenti, così potrà avviare subito la pratica» replicò lui.

La donna lanciò un’altra occhiata all’orologio a parete e sospirò, poi tornò a guardare di sbieco Carpetti.

«Vediamo… la dichiarazione dei redditi l’ha portata?» gli chiese, e lui annuì.

В«Lo stato di famiglia?В»

В«Si.В»

В«Il codice fiscale?В»

В«Se invece di farmi tutte queste domande mi lascia compilare il mio foglio e guarda nella cartella che le ho dato, vedrГ  che non manca niente! Ho portato tutti i documenti necessariВ» fece lui bruscamente.

La signora buttò gli occhi al cielo e sbuffò, indecisa se ribattere o meno, poi pensò che il venerdì era vicino e scorse distrattamente i fogli.

«A prima vista non mi pare che lei rientri nella fascia di reddito per cui è prevista l’esenzione» sentenziò.

«Ma com’è possibile? Con quello che guadagno arrivo appena a fine mese!» domandò stupito lui.

«Non si scaldi» replicò la donna con voce calma, aveva trascorso anni in quella trincea e disponeva di mille risorse per combattere chi stava dall’altra parte della barricata.

«Mi scusi, non volevo essere scortese… è che ne ho proprio bisogno, di quelle medicine» fece lui quasi sottovoce guardandosi le scarpe.

«Bene, allora intanto veda di calmarsi perché io non c’entro niente, non le faccio certo io quelle tabelle» puntualizzò lei in un tono lievemente inacidito sbirciando ancora una volta l’orologio.

«Mi scusi di nuovo, è che sono molto teso… quelle medicine mi servono davvero urgentemente» insisté Carpetti. La donna alzò la testa e col dito indice si spinse indietro gli occhiali sul naso come per metterlo meglio a fuoco.

«Senta, io vedo dozzine di persone ogni santo giorno. Vengono a chiedere l’esenzione perché denunciano un reddito molto minore del suo, e poi magari se ne vanno al ristorante tutte le sere e girano in auto di lusso. Certamente lei non farà parte di quella categoria, ma io non posso davvero farci niente. Vada a protestare con chi le crea, queste situazioni, e soprattutto con chi le sfrutta» sentenziò. Ci furono pochi istanti di silenzio, durante i quali Carpetti valutò tutte le possibilità. Sapeva che mettersi a gridare non gli sarebbe servito.

«E allora cosa devo fare?» chiese nel tono più gentile che gli riuscì.

«L’unica cosa che può fare è una inoltrare una domanda di rimborso speciale da inviare al Presidente di Regione. Se le verrà accordato provvederanno a rimborsarla entro due anni, le sarà sufficiente conservare le ricevute delle spese che ha sostenuto per acquistare le sue medicine.»

В«Forse non mi sono spiegato beneВ» rispose lui cambiando di colpo espressione e tono di voce. В«Io non dispongo del denaro sufficiente per comprarmi le medicine, altrimenti non sarei qui a umiliarmi davanti a una perfetta sconosciuta! E senza quei farmaci, ogni due giorni che passano perdo la possibilitГ  di viverne uno in piГ№!В»

«Non so cos’altro dirle, se non è convinto si rivolga a qualche altro ufficio» ribadì la donna dopo un lungo istante di silenzio, per niente toccata dalle parole di Carpetti. «Mi dispiace» aggiunse più per abitudine che per altro, poi allungò la mano verso la cordicella per abbassare la tapparella.

«Non è vero!» gridò Carpetti sbattendo sul vetro una manata così violenta che strappò un sobbalzo alla donna. «Non è vero che ti dispiace. Di quelli come me non te ne frega niente, tu pensi solo ad arrivare a fine mese per prenderti lo stipendio che ti ho garantito io pagando le mie tasse! Tra poche settimane morirò, e la colpa sarà anche tua perché non hai voluto aiutarmi!» continuò a urlare. La donna scomparve dietro la tendina celeste ma lui continuò a tempestare di pugni il vetro gridandole contro, con gli occhi quasi fuori dalle orbite a causa della rabbia, finché una guardia giurata lo afferrò per la giacca e lo trascinò di peso fuori.



No, no, No! Non mi piace! E’ troppo patetico, troppo noioso! PA-TE-TI-CO! E puerile, infantile, con questa protesta da adolescente che lotta contro il Sistema. Ma perché scrivere una storia deve essere così maledettamente difficile? Eppure sono convinto che qualsiasi idea possa essere interessante, dipende soltanto da come la si racconta. E da quanto amore ci si mette dentro, come in tutte le cose… ma questa è tutta troppo idealizzata, troppo distante dalla realtà. Devo riuscire ad immedesimarmi di più. Devo riuscire a pensare come lui, a sentirmi come si sentirebbe lui. Forse devo rileggere quello che ho scritto finora, magari mi verrà fuori qualche modifica.



CAPITOLO VII (DEVO LAVORARE)



Carpetti rientrò in casa e tirò dritto in corridoio per andare a buttarsi sul letto, l’appetito gli era definitivamente passato. Il pesce nell’acquaio si era ormai scongelato e aveva cominciato a diffondere un odoraccio per la casa, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri. Stava spendendo tutte le sue energie per cercare di ragionare, di farsi venire un’idea per ottenere quei medicinali. Ma stava davvero troppo male. Un malessere quasi fisico lo attanagliava da capo a piedi impedendogli di pensare, si sentiva annullato, come se qualcuno o qualcosa avesse già provveduto a cancellarlo dalla faccia della Terra. Stremato dall’emozione crollò di colpo per cadere in uno stato di tormentato dormiveglia, durante il quale gli riaffiorarono ricordi sepolti ormai da anni in fondo alla memoria. Rivide la casa nella quale era cresciuto, umida e buia, di quelle con i muri spessi e le mattonelle del pavimento in graniglia. Una di quelle case antiche che hanno un odore particolare di umido e di polvere, che ti torna familiare nelle narici soltanto quando lo senti di nuovo dopo qualche tempo. E rivide la strada di periferia nella quale giocava da bambino, sporca, con i lampioni rotti dalle sassate dei suoi compagni di giochi. La stessa strada dalla quale un giorno suo fratello era partito senza più fare ritorno, qualcuno mormorava a causa della droga. E poi sua madre, con quegli occhi sempre tristi, con sempre indosso lo stesso vestito. E suo padre, che tutte le sere tornava distrutto dal lavoro, si sedeva a tavola senza aprire bocca, cenava e andava a dormire. Carpetti rimase in quello stato per tutto il resto della giornata e tutta la notte seguente, il risveglio arrivò presto e lo trovò sempre più confuso. Per qualche istante osò sperare che il giorno precedente non fosse realmente trascorso, sperò che si fosse trattato piuttosto di un brutto e interminabile incubo. Ma dopo aver continuato a fissare per un po’ il soffitto abbandonò quella sensazione di parziale distacco da sé stesso, come se quella cosa stesse capitando a qualcun altro e non a lui, e decise di provare a farsi forza. Si disse che quello non era il modo giusto di affrontare quell’assurda situazione e decise di reagire. Si alzò e andò a studiare il calendario appeso al muro, dal quale una soubrette gli lanciava sguardi sexy. Aveva comprato quel calendario anno dopo anno, era stata da sempre la sua unica concessione alle cose futili e la sua unica Uscita di Sicurezza verso il Mondo della Fantasia. Contò i giorni, e poi le settimane e i mesi, e poi le ore e addirittura i minuti, usando le dita, finché si guardò le mani. Provò pena per sé stesso e per loro pensando che un giorno non lontano si sarebbero fermate per sempre, e due lacrime silenziose gli scesero lungo le guance un po’ paffute. Devo lavorare, è triste dirselo ma il lavoro è l’unica cosa che mi rimane realizzò di colpo. Carpetti era magazziniere in una ditta di distribuzione di acque minerali e non amava né quel mestiere né il datore di lavoro, ma non aveva avuto molto da scegliere. Inoltre quel lavoro gli permetteva di tirare avanti, per di più, per quanto lo odiasse, adesso era l’unica cosa che gli restava per non fermarsi a pensare.



Ora Basta, devo trovare il modo di dormire un po’ perché sono davvero distrutto. Non so se sto scrivendo una storia interessante, però in fondo sono contento. Bella o brutta che sia, non pensavo che ci sarei riuscito. Sono sicuro che quando mostrerò a Sissi il romanzo finito, mi dirà che è orgogliosa di me. Ma prima di incontrarla devo anche decidermi a darmi una bella sistemata, negli ultimi giorni mi sono lasciato andare un po’ troppo e adesso sembro proprio un disgraziato.



CAPITOLO V



UN BRUTTO RISVEGLIO



Franco aveva amato Silvia fin dalla prima volta che l’aveva incontrata, davanti a quel banchetto di libri usati dove lavorava in attesa di laurearsi in lettere. Avevano scoperto di avere così tante cose in comune che avevano presto deciso di sposarsi, l’avevano fatto non appena lei si era laureata. Era stata Sissi a trasmettergli la passione per la lettura, era lei che lo faceva sentire vivo, che gli faceva capire di esistere per qualcosa. Era Sissi che gli aveva dato due bambini meravigliosi. Sulla scia di queste riflessioni, Franco si attardò ancora, quando si accorse che ormai era quasi mattina si decise finalmente ad andare a dormire e lo fece col sorriso sulle labbra, stringendo una foto al petto. Il risveglio però fu tutt’altro che sereno: ancora una volta, a destarlo di soprassalto era stata quella solita fitta dietro l’orecchio. La foto gli cadde a terra, il vetro si ruppe e lui imprecò. Guardando l’orologio sul comò vide che era pomeriggio inoltrato, subito dopo, un brontolio sordo del suo stomaco lo informò che aveva una fame da lupo perché ultimamente aveva ingerito soltanto alcool e fumo di sigaretta. Si riempì alla meglio la pancia con crackers e sottilette, poi andò a stendersi in terrazza ma il dolore dietro l’orecchio continuava a dargli fastidio.



Franco continua a ondeggiare nel vuoto già da un po’, come sbadatamente. Nessuno tra gli spettatori di quell’incredibile performance osa dirselo, ma i più sono terribilmente indecisi se sperare che cada oppure che si salvi: dopotutto non capita tutti i giorni, di assistere ad un’esibizione del genere. Qualcuno ha messo il telefonino in modalità “video” e lo tiene puntato verso il balcone, col dito pronto a scattare l’istantanea dell’uomo che precipita.

«I materassi!» grida d’un tratto il Vigile del Fuoco nella ricetrasmittente, folgorato da un’idea. «Suonate a tutti i campanelli e fate buttare dalle finestre quanti più materassi riuscite a trovare, li raccoglieremo e li ammucchieremo là sotto. Ma fate presto, la situazione è critica. Quell’uomo sta lentamente scivolando, non so quanto ancora potrà resistere senza lasciarsi andare… e muovetevi a sistemare quella dannata puleggia!»

Poi, senza attendere la risposta dei colleghi, si volta di nuovo a guardare Franco. Non riesce a scacciare dal proprio animo incredulità e stupore, quell’uomo continua a starsene lì, appeso per una mano sola come una scimmia, incurante di tutto e di tutti.

В«Ehy tuВ» gli grida, ma ГЁ perfettamente consapevole che tentare di parlargli ГЁ del tutto inutile. Franco si ГЁ ormai completamente isolato in un mondo tutto suo, ГЁ come se in quel momento si trovasse comodamente seduto sul divano a guardare una partita di calcio.

«Non mollare adesso. Avanti, metti su l’altra mano. Tieni duro altri due minuti, per favore. Due minuti soltanto, che ti costa? Ehy, sto parlando con te!» prova comunque a insistere il pompiere.

La mano di Franco, sudata, scivola improvvisamente giù per una ventina di centimetri. La sua discesa si ferma solo quando il polso urta il corrente orizzontale della ringhiera e un “oooohhhh” ansioso sale dal cortile fino alle sue orecchie. Un rivolo di sangue tiepido gli scende lentamente lungo l’avambraccio, arrivato al gomito una goccia stilla e gli cade sulla guancia, richiamandolo improvvisamente alla realtà. Per un attimo lui guarda verso il basso e subito dopo scruta con occhi inespressivi il pompiere, che giurerebbe di aver visto un lampo di paura attraversare i suoi occhi. Come se fosse la cosa più semplice del mondo, Franco dà un colpo di reni e si issa, scavalca la ringhiera e in un attimo si trova di nuovo sul terrazzo. Il fragore di un prolungato applauso liberatorio esplode all’istante dal basso, il Vigile del Fuoco si strofina gli occhi, confuso.

«Sei grande!» gli grida subito dopo, sconcertato. «Ora per favore non fare cazzate. Vai ad aprire la porta, i miei compagni verranno a prenderti e ti porteranno via da lì. Mi senti? Qualsiasi sia il tuo problema lo risolveremo insieme» fa per aggiungere, ma le ultime parole gli muoiono in gola perché la macchina per scrivere gli manda dritto negli occhi un riflesso così intenso da abbagliarlo. Franco entra in casa e si dirige verso la porta d’ingresso, ma giunto davanti alla macchina per scrivere si ferma. Sembra riflettere per qualche attimo, poi, anziché andare ad aprire la porta agli uomini che stavano correndo su per le scale, impila con cura un altro po’ dei fogli dattiloscritti sparsi sulla scrivania. Li raccoglie e torna sul terrazzo, come se niente fosse.

«E ora cosa diavolo vuoi fare?» gli domanda in tono incerto il pompiere vedendo che si sta di nuovo avvicinando al parapetto. «Torna dentro, per amor di Dio! Ti ho detto che stiamo venendo a prenderti, siamo qui per aiutarti. Torna dentro… oh, maledizione! Tu sei tutto matto!» urla spazientito scalciando per la stizza, prima di riprendere a imprecare verso i colleghi che stanno ancora lavorando a quella puleggia. Intanto Franco è tornato a sedersi a cavalcioni della ringhiera, adesso scorre velocemente le pagine del romanzo e lascia cadere giù quelle che ha già letto. Un improvviso prurito al ginocchio attira la sua attenzione, si gratta e sente una crosta sotto le dita.

E questo graffio come me lo sono fatto? si domanda, un attimo dopo gli torna a mente.

Ricorda la fuga dall’ospedale, la vista che lo abbandonava di nuovo e l’urto contro un passante, un vetro conficcato nel ginocchio e il dolore spaventoso. Ricorda i propri occhi che cercano di mettere a fuoco, ridotti a due piccole fessure. E quell’uomo in camice bianco che si avvicina gridando ai passanti di fermarlo, e la gente curiosa che osserva tenendosi a distanza. Si è quasi arreso, l’aria che respirava è troppo poca e troppo calda, le gambe troppo pesanti. Proprio quando è sul punto di cedere vede un prato, allora alza e ricomincia a correre su quel soffice tappeto verde. Il suono di un’altra sirena lo riporta al presente, si stringe nelle spalle e riprende a leggere, sillabando.



CAPITOLO VII (IL LICENZIAMENTO)



В«Buongiorno, signor Dini.В»

«Buongiorno? Altro che buongiorno, disgraziato! Mi hai lasciato qui da solo proprio ieri che arrivavano i fornitori, ho passato la giornata a scaricare bancali su bancali… hai la minima idea di che inferno sia stato?»

Carpetti sapeva che il principale avrebbe certamente trovato da ridire circa la sua assenza del giorni prima, magari per sfruttarla come pretesto per togliergli qualche spicciolo dallo stipendio o per chiedergli qualche prestazione extra, ovviamente gratis. Gli venne da pensare che se stava recitando la solita parte si era preparato a dovere, non l’aveva mai visto così alterato.

Ricordati che devi lavorare! pensГІ tra sГ© ancora una volta, poi rispose.

«L’avevo avvisata che ieri dovevo andare dal dottore…»

«Non me ne frega un fico secco di ciò che avevi da fare, ho dovuto prendere una persona che ti sostituisse e ho dovuto pagarla, e quei soldi li detrarrò dalla tua paga» replicò l’altro, come previsto.

В«Ma non ГЁ giusto, i permessi sono un mio diritto. In tanti anni non ne ho mai preso uno.В»

A quel punto il principale finse di andare su tutte le furie. Aveva usato da sempre questa strategia con lui, fare in modo che si sentisse un inetto: avrebbe lavorato molto e avrebbe avuto poche pretese.

«Tu qui non hai diritto proprio a niente, hai capito?» gli gridò in faccia l’altro senza notare che le sopracciglia di Carpetti si stavano lentamente abbassando mentre le sue labbra si increspavano. «Ti faccio già un favore a farti lavorare!» continuò a sbraitare il signor Dini, i colleghi di Carpetti si fermarono tutti quanti e si avvicinarono per godersi la scena.

Devo lavorare si ripeté lui per l’ennesima volta, ma intanto la sua mente aveva cominciato a ripensare a tutte le volte che quell’uomo lo aveva vessato, a tutti gli straordinari non pagati cui lo aveva costretto, alle ferie negate e a molte altre cose.

Devo lavorare provò a convincersi una volta di più, ma proprio in quell’istante l’altro gli gettò addosso la sua cappa azzurra da lavoro, che gli rimase appesa sulla testa a coprirgli la faccia. I colleghi esplosero in un coro di sghignazzi.

В«E ora al lavoro, filaВ» gli ordinГІ Dini per tagliare corto.

Senza dire una parola Carpetti tolse via la cappa azzurra e la lasciГІ cadere a terra, poi afferrГІ il signor Dini per il colletto della camicia e lo tirГІ a sГ©. Lo guardГІ dritto negli occhi, da molto vicino.

«Dammi tutto ciò che mi spetta. Subito» ringhiò, l’altro lo guardò incredulo.

«Ma come,» rispose disorientato dalla sua reazione, «te la prendi così dopo anni che lavoriamo gomito a gomito? Come ti ho detto ieri è stata una giornata infernale, e allora…»

«Non lo ripeterò» lo interruppe Carpetti, stringendo un po’ di più la presa. «Voglio tutto quello che mi spetta, e lo voglio adesso!»

In pochi istanti aveva fatto due calcoli, il risultato cui era giunto era che la sua dignità non aveva prezzo. Il denaro che avrebbe riscosso, tra arretrati e liquidazione, gli avrebbe permesso di giungere dignitosamente alla fine. E forse, con qualche sacrificio, anche di comprarsi le medicine per un po’di tempo… anche se sospettava che questo sarebbe servito soltanto ad allungare la sua agonia. Il signor Dini era davvero spaventato, tirò fuori il libretto degli assegni da una tasca e cominciò a compilarne uno con mano tremante.

«Tieni, la ragioniera farà i conti ma questa cifra dovrebbe coprire tutto. E comunque, lo sai che per te qui c’è sempre posto. Se dovessi ripensarci…»

«Se ripenso che mi hai gettato la cappa in faccia torno qui e spacco tutto!» replicò Carpetti guardandolo torvo, poi si incamminò verso l’uscita.

«Avete visto tutti quanti, non è vero? Lo avete visto come mi ha aggredito… ma io lo denuncio, lo rovino!» disse il signor Dini agli altri dipendenti, mentre si allontanava Carpetti lo sentì gridare. E nonostante tutto, per quanto di divertente non ci fosse proprio nulla, per la prima volta dopo tanto tempo si sorprese a sorridere.



Bene, la sua prima piccola rivincita il nostro Carpetti l’ha avuta! Adesso sarà sorpreso di come sia stato facile, di come sia stato sufficiente tirare fuori l’orgoglio. E questa cosa gli darà una sensazione gradevole, che gli farà bene ma lo spaventerà un po’ perché non ci è abituato! Finora ha scelto di vivere come in una bolla di sapone, delicata e facile a rompersi ma abbastanza forte da tenerlo al riparo dalle emozioni e dal Mondo, e tanto leggera da poterlo portare poco più in là con un semplice soffio quando una certa situazione non gli piaceva. E quella bolla di sapone l’ha sempre tenuto lontano dai grandi guai e dai grandi rischi, ma di contro anche dalle soddisfazioni, piccole o grandi. Ma se io fossi lui, adesso che cosa farei? Non lo so, non lo so proprio… comunque ora devo cominciare a dargli un po’ d’azione, a questo racconto, a scuoterlo un po’, altrimenti scrivendolo mi addormenterò! Eppure, anche se sembra impossibile, questa storia continua a fare di testa sua. Va dove vuole andare lei e non dove voglio io, è come un puledro che non riesco a domare… chissà se funziona così anche per gli scrittori veri. Chissà se anche loro, quando mettono la parola “fine” in fondo all’ultima pagina di un lavoro, si accorgono che il risultato è completamente diverso dall’idea originale.



CAPITOLO VII (CARPETTI RIFLETTE)



Carpetti era meravigliato del proprio stesso comportamento, era sempre stato uno di quelli che per paura di manifestare la propria opinione tendono sempre a giustificare gli altri, a scapito della propria dignità e del proprio orgoglio. Mentre camminava per le vie della città, immerso in un brulichio di persone indaffarate e indifferenti, si disse che tutto sommato mandare a quel paese il signor Dini era stato facile. Si rese conto di aver appena scoperto una nuova parte di sé, con un certo rammarico si disse che se quell’atteggiamento l’avesse avuto nei confronti della vita quotidiana, allora probabilmente la sua esistenza sarebbe stata profondamente diversa. Ma le cose che nella vita aveva affrontato mettendoci la giusta quantità di grinta erano state davvero poche, fino a quel giorno aveva sempre pensato che non valeva la pena di sprecare energie e di arrabbiarsi, di lottare. Col trascorrere degli anni si era poi convinto che bisogna accontentarsi di quello che si ha e di quello che si è, perché in caso contrario potrebbe sempre andarti peggio. Perché il Mondo Bello, quello che si vede in televisione, è comunque irraggiungibile. Così i suoi interessi, come il suo amor proprio, erano lentamente scemati finché lui si era chiuso sempre di più nel suo piccolo mondo di piccole abitudini. Depressione, avrebbe detto uno psichiatra.



Da quando, appena pochi giorni prima, Franco le aveva parlato di una sorpresa, Sissi era profondamente angosciata. Un incubo ricorrente si era improvvisamente riaffacciato alla sua mente dopo anni e aveva ripreso a farle compagnia notte dopo notte, arrivando a minare la sua serenità. Non riusciva più a riposare come si deve e stava passando le giornate correndo dietro ai figli, si sentiva già letteralmente snervata. Inoltre era stizzita verso sé stessa perché stava lasciando che quell’assurda paranoia rovinasse le vacanze estive, che avevano progettato e atteso tutti insieme per un anno intero. Nel volgere di pochi giorni la sua inquietudine si era fatta così intensa che avrebbe voluto salire in auto e correre a casa, per controllare di persona che quel presentimento così irrazionale non stesse davvero trasformandosi in realtà. Ma non voleva riportare i bambini in città così presto senza un motivo importante, non sarebbe neanche stata in grado di fornire loro una spiegazione logica per quell’improvviso dietro-front. Eppure, malgrado tutti i suoi sforzi per convincersi che non c’era niente di cui preoccuparsi, non riusciva a cacciar via quella brutta sensazione. Decise di telefonare a Franco, sperava che parlando con lui si sarebbe finalmente convinta che la sua era appunto un’assurda paranoia e che non era successo niente di ciò che temeva. Compose il numero e rimase a lungo in attesa, col telefono che squillava a vuoto, finché finalmente Franco si fece vivo all’altro capo del filo.

«Sissi! Come sono felice di sentirti, non vedo l’ora di stringerti tra le..”. cominciò a dire, ma non riuscì a terminare la frase perché una fitta di dolore più intensa e più prolungata delle altre gli tolse brutalmente il respiro. La cornetta gli cadde di mano, lui la raccolse a fatica dicendosi che quel malessere era diventato una vera e propria tortura. Era sveglio soltanto da poche ore ma aveva già perso il conto delle stilettate che lo avevano spietatamente aggredito, si sentiva stordito e spaventato. «No, non è successo niente, mi è solo scivolata di mano la cornetta del telefono..”. si affrettò a cercare di rassicurare Sissi, il suo grido soffocato le aveva dato la pelle d’oca.

«Come, cosa vuol dire che mi trovi strano?…. no va tutto bene. La voce roca? Devo aver preso fresco dormendo con la finestra aperta… si, tra pochi giorni andrò alla visita di controllo… no, non devi preoccuparti… va bene… va bene…. va bene…. stai tranquilla, ti ho detto che va tutto bene. D’accordo, ti prometto che farò come dici tu. Lo sai che ogni tuo desiderio e’ un ordine, mia Regina» concluse Franco cercando di strapparle un sorriso, ma per tutta risposta gli arrivò soltanto un profondo sospiro. Sissi riattaccò demoralizzata, quella telefonata non l’aveva per niente aiutata a chiarire i suoi dubbi. Franco non le era parso troppo in forma, ma in fondo non le aveva neanche trasmesso sensazioni particolarmente negative. Si ripeté ancora una volta che l’ossessione che le si era inculcata nella testa era assurda e si strinse nelle spalle, ripromettendosi di chiamarlo più spesso. Franco riattaccò e andò ad affacciarsi alla finestra, ancora afflitto da quel malessere. L’aria si era improvvisamente rinfrescata, un acquazzone estivo si stava avvicinando rapidamente e lui decise di goderselo, il contatto diretto con le forze della Natura era una delle cose che amava di più. Di colpo però fu avvolto dall’ennesimo sinistro presagio, una specie di consapevolezza triste e rassegnata che quel temporale sarebbe stato l’ultimo a cui avrebbe assistito. Colto da un’insolita agitazione indossò in fretta e furia una t-shirt ed un paio di scarpe da tennis, poi si legò un k-way in vita annodando le maniche e si precipitò per strada. Cominciò a camminare senza mèta e senza fretta, inspirando a pieni polmoni quel buon odore di pulito. Il giorno sta finendo e la città è deserta, questo è uno spettacolo davvero stupendo. E’ quasi come se tutto questo fosse mio: le strade e le siepi, il cielo e le nuvole. E questo silenzio è bellissimo.




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